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Chi scrive oggi spesso si pone una domanda capitale: si può scrivere un romanzo in dialetto? La risposta, però, è più complessa di ciò che si pensi.
Poiché il cruccio di tantissime autrici e autori è proprio capire se possono utilizzare il dialetto per i propri romanzi, ho pensato di analizzare in questo aticolo pro e contro della sua adozione.
Domandarsi se si può scrivere un romanzo in dialetto è legittimo, soprattutto se consideriamo che esso può assolvere alcune funzioni davvero importanti all’interno della narrazione.
1. La prima può essere quella di ricreare immediatamente un’atmosfera che per il lettore può rivelarsi familiare al lettore o molto lontana. Ciò dipenderà da chi leggerà. Il dialetto rivela che la storia ha dei parlanti collocati in uno spazio-tempo preciso. Ricordiamoci che in Italia si parla di dialetti regionali, ma esistono anche i gerghi, le lingue inventate e quelle indecifrabili. Ogni volta in cui la lingua compie uno scarto dalla “norma”, si accende un campanello di allarme che rende il lettore più attento e curioso.
2. La seconda ragione, contenuta in parte nella prima, è denotare l’origine dei personaggi, ma anche la loro collocazione sociale o le loro scelte di vita.
3. La terza è dare corpo a realtà altrimenti inesprimibili perché inesistenti contesti diversi da quello in cui è ambientata la storia. Pensiamo a parole come accabadora (in lingua sarda, dall’omonimo romanzo di Michela Murgia) o arminuta (dal dialetto abruzzese di Donatella Di Pietrantonio).
L o stesso accade quando si prova a tradurre una parola straniera riferita a un concetto inesistente in italiano: i cinquanta modi di dire mare nelle lingue del nord si riducono a pochi sostantivi se tradotti, dunque perdono potenza.
In questo caso, il dialetto diventa un marcatore territoriale e forse socio-culturale, ma non prende il sopravvento. È una scelta utile se si pensa che i lettori non capirebbero intere frasi dialettali.
Questo è ciò che ritroviamo in Morsi di Marco Peano, dove alcune parole in dialetto piemontese sono utilizzate senza alcuna traduzione né piccolo indice delle parole finale. Nel leggerlo mi sono chiesta cosa fossero i ciapinabò, ma la cosa non mi ha particolarmente turbato, né ha rallentato la storia.
A volte, se il dialetto è conosciuto oppure ormai diventato popolare (si pensi allo sdoganamento del romanesco e del milanese, prima, e del siciliano, poi, in televisione, grazie a film, presentatori tv e fiction) si evita di “tradurlo” per evitare di appesantire la narrazione.
Il primo autore che viene in mente è Camilleri, ma prima di lui ci sono altri siculi illustri, come Pirandello e, in qualche misura, Verga (che usa una tecnica specifica, ovvero quella dello straniamento).
Camilleri, oltre a parole in dialetto, utilizza una “lingua dialettale”, che ricalca nella forma i costrutti del siciliano pur utilizzando l’italiano nella maggior parte dei casi.
In realtà, Camilleri impiega anche l’italiano standard e un dialetto specifico per Catarella (per approfondire suggerisco un articolo di Francesca Parenti dedicato a Camilleri e alla traduzione).
Invece, Di Pietrantonio utilizza singole parole dialettali, che però nel testo non sono segnalate mai in corsivo, a significare quanto siano parte integrante e fondante della sua prosa.
Questo è un caso meno frequente e, di solito, rintracciabile in autori che hanno già avuto una consacrazione col pubblico o che hanno compiuto riflessioni sul linguaggio. Pensiamo a Pasolini con Ragazzi di vita, per esempio.
È complicato che un esordiente possa pubblicare un romanzo totalmente dialettale, serve una casa editrice molto convinta e che voglia scommettere sulla territorialità.
Questo caso è molto comune, ma particolarmente evidente nei romanzi di Elena Ferrante, la quale nell’Amica geniale sceglie di non scrivere in dialetto sebbene il romanzo sia ambientato in un quartiere popolare di Napoli.
Come mai? Una delle spiegazioni è la volontà di rendere il più fruibile possibile la lettura anche a parlanti non campani. Tuttavia, c’è da notare anche che il narratore della storia è l’unico personaggio che da parlante di solo dialetto ha imparato l’italiano e ne ha fatto la sua lingua d’elezione, diventando anche scrittrice. Insomma, abbiamo una spiegazione metanarrativa: Elena Greco è voce narrante e scrittrice della sua stessa storia, dunque si esprime in italiano anche quando traspone i suoi ricordi.
Perché il narratore della storia è Elena, un personaggio che ha studiato e che può esprimersi in maniera convincente in italiano e non sarebbe credibile se scrivesse in dialetto campano, ma vedremo più avanti che c’è anche un’altra ragione.
Sì, anzi, interrogarsi sul narratore è fondamentale.
Occorre domandarsi:
Un narratore interno che abbia come lingua madre il dialetto può raccontare una storia in italiano? Probabilmente no, e un narratore esterno invece? Se hai dubbi sui narratori ti consiglio di leggere l’articolo dedicato alle tipologie di narratore.
Quando ero piccola i miei genitori non parlavano in dialetto davanti a me, anche i miei nonni si sforzavano di parlarmi in italiano (cosa non sempre facile per loro), perciò ho imparato solo da grande alcune parole.
Questo atteggiamento era molto comune nel Sud Italia, e ancora oggi persiste. Il dialetto in Sicilia e in altre regioni ha segnato per generazioni la differenza tra chi aveva studiato e chi no, portando a un’equazione semplice: se parli dialetto sei ignorante.
Ma non è valso per tutti i dialetti italiani. Sempre da adulta, ho scoperto che ci sono regioni (penso al Veneto, per esempio) dove il dialetto è motivo di vanto e baluardo di identità, quindi parlato anche nei luoghi pubblici.
A cambiare è il prestigio della lingua percepito dai parlanti, che a sua volta influenza l’utilizzo del dialetto nella lingua comune e anche nello scritto.
Se un parlante pensa che la sua varietà linguistica sia prestigiosa e fonte di identità allora la utilizzerà. Per molti dialetti italiani, l’Unità d’Italia è stata la cesura per degradare l’opinione che avevano del dialetto. A scuola si doveva parlare italiano, se non lo facevi eri un asino. Da quel momento dialetto e ignoranza sono divenuti un binomio molto comune e fonte di pregiudizio, non ancora estinto del tutto.
Avere coscienza delle motivazioni che hanno reso l’impiego del dialetto più o meno frequente, è fondamentale quando si decide di utilizzarlo. Tornando a Elena Ferrante, appare allora più chiaro come mai Elena Greco decida di raccontare in italiano: non può fare altrimenti, dato che la distanza fisica, che ha messo tra sé e il rione popolare in cui è cresciuta, corrisponde a una distanza intellettuale, quella di chi ha adesso i mezzi per esprimersi in italiano.
Sicuramente oggi dobbiamo ringraziare il Verismo, Pasolini, Testori, Camilleri, Murgia (sebbene il sardo sia una lingua e solo impropriamente definito dialetto), Saviano, se un giovane autore sceglie di scrivere in dialetto il suo romanzo o se sceglie di utilizzarlo in alcune parti. Senza di loro la letteratura italiana sarebbe più povera e anche le prospettive dei lettori meno ampie.
Per chiudere vorrei citare Pirandello, a sua volta ispiratore anche di Camilleri, che diceva: “la lingua esprime il concetto, il dialetto il sentimento di una cosa”. Quindi, se pensate che il sentimento della cosa che state raccontando sia più efficace se espresso in dialetto, mettete da parte ogni remora e iniziate a scrivere.
Crediti foto: Suzy Hazelwood via Pexels.
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